(di Franco Rota)
Introduzione
La possibilità di conoscere e di commentare fatti avvenuti secoli or sono è strettamente legata alle fonti che si rendono disponibili. Spesso le “fonti” sono a malapena citate nelle note a piè pagina, in caratteri piccoli: in questo caso, invece, vorrei porle subito in evidenza.
Per preparare questo breve intervento, ho consultato in particolare il volumetto intitolato “Notizie sui tre Casati di Momiano” il cui autore Stefano Rota (1824-1916), ultimo discendente in linea maschile del ramo piranese dei conti di Momiano, fu un apprezzato studioso, letterato, con interessi culturali estesi sino al campo musicale.
Fu per lungo tempo il responsabile dell’Archivio comunale di Pirano: l’incarico gli venne conferito il 3 ottobre 1855 e durò fino al 17 gennaio 1896, come risulta dalla lettera di encomio del Podestà conservata in originale nell’archivio privato Benedetti.
Una precedente attestazione, rilasciata dall’Ufficio Municipale di Pirano il 27 settembre del 1870, certificava “che il Sig. Stefano Rota, civile possidente in questa Città sin dalla sua giovinezza, si occupi di studj letterari senza interruzione e che in riflesso di questo la Rappresentanza Comunale lo istituì custode e direttore di questo Civico archivio e biblioteca, incarico che egli disimpegnò e disimpegna tuttora zelantemente e gratuitamente nell’interesse e decoro cittadino”.
Oltre ai documenti di tale archivio, il conte Stefano consultò altri scritti e autori, che troviamo debitamente citati: il Nicoletti, il Buttazzoni, le Note Storiche del De Franceschi, la Monografia di Pirano del Morteani, il Codice Diplomatico Istriano, la Corografia d’Italia del Luciani e alcuni lavori del contemporaneo Pietro Kandler, col quale intrattenne uno scambio di lettere ispirato a reciproca stima e collaborazione.
Tra le fonti più recenti di cui mi sono avvalso, ricordo il libro “Momiano e il suo Castello”, scritto da Elvino Zinato nel 1966. Nei siti web ho rinvenuto diverse sintesi, tra le quali il testo di Gualtiero de Rota intitolato “Momiano, il suo castello e l’avvento dei conti Rota” (Milano, 2011), e il resoconto “Gita a Momiano” pubblicato il 24 maggio 2011 dall’Associazione culturale Ermes Grion di Monfalcone.
Uno speciale ringraziamento infine rivolgo a Francesca Rota Busolini (pronipote dell’insigne musicista Giuseppe Rota) e a Nicola Gregoretti, diretto discendente dei conti di Momiano, che mi hanno consentito di visionare i rispettivi archivi familiari e di attingere ulteriori notizie.
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Cenni sulle origini del feudalesimo in Istria
Per capire le origini del feudalesimo in Istria occorre riandare indietro di una decina di secoli. Dopo la caduta dell’impero romano, le calate dei barbari (Àvari, Longobardi) e l’avvento dell’impero bizantino, la frammentazione della penisola italiana prima e l’ascesa di Venezia poi produssero intorno all’anno 1000 un quadro piuttosto complesso: al centro della Penisola istriana, la contea di Pisino; sulla costa, un graduale inserimento di Venezia, contrastato dai conti di Gorizia e dal duca d’Austria; nel resto del territorio, la presenza del patriarcato di Aquileia.
Quest’ultimo decise a un certo punto rafforzare le difese dei propri domini. Per questo, sotto i primi patriarchi Volchero e Bertoldo furono costruiti o restaurati alcuni castelli, in particolare quelli di Pietrapelosa e di Grisignana verso la valle del Quieto e quelli di Momiano e di Castelvenere a guardia della val Dragogna.
La repubblica di Venezia cercava a sua volta di consolidare la propria presenza in Istria per disporre di basi di appoggio alle sue attività marinare e per assicurarsi l’approvvigionamento di prodotti utili per la sua economia, quali la pietra bianca da costruzione, il legno di quercia (molto apprezzato quello dei boschi di Montona) per l’industria navale e per le fondazioni, nonché olio, vino, farina e altri prodotti.
La denominazione Momiano, Mimilianum sulle carte medioevali, si trova citata per la prima volta nel diploma imperiale del 1035 col quale Enrico IV investiva del Marchesato d’Istria certo Sigeardo.
Nel 1102, il territorio figura fra i domini donati dal Marchese Voldalrico di Weimar alla chiesa aquileiese. Intorno al 1206, il patriarca Volchero nomina quale proprio vicario in Istria, con sede in Capodostria, Vicardo de Mimilianis che, in un documento del 1208, verrà descritto come “huomo ragguardevole per chiarezza di vita e di fortuna”.
Lo storico Nicoletti indica tra le funzioni del vicario reggente (Landrichter) la riscossione delle tasse e la difesa del feudo; secondo il Buttazzoni, la sua competenza principale era l’amministrazione della giustizia in nome del patriarca; gli incombeva inoltre l’esazione delle rendite concesse in appalto, per le quali doveva riversare una certa somma al patriarcato.
La nomina del marchese vicario competeva al patriarca, ma previa sanzione, ossìa col beneplacito, dell’imperatore o del supremo principe infeudante. Veniva attribuita con un diploma che stabiliva i doveri, la durata della carica e ridefiniva a seconda delle circostanze la sfera delle attribuzioni. L’incarico durava di norma da uno a due anni, ma a volte veniva affidato per periodi più lunghi, alla luce delle qualità della persona prescelta, sino ad assumere un carattere quasi ereditario.
Nel 1231 si rinviene una nuova citazione di Vicardo de Mimilianis, quale incaricato del patriarca Bertoldo di Andechs; tuttavia in mancanza di altri documenti non sappiamo se si tratti dello stesso personaggio già citato o di un suo parente.
Esaurita questa fase protostorica, Momiano passa sotto la giurisdizione della famiglia dei Duinati, che ritengo corretto definire quale primo Casato di Momiano.
Duinati, il primo Casato di Momiano (1230 – 1337)
La rocca di Duino, dimora originaria di questa famiglia, viene menzionata per la prima volta nel 1139[1]. Secondo lo studioso Rodolfo Pichler, capostipite dei Duinati fu Stefano I, sposato con Adelmota di Pisino, dalla quale ebbe tre figli maschi: Stefano II (signore di Castiglione del Friuli), Ugone (signore di Duino) e Vossalco o Woscalcus (signore di Momiano).
Quest’ultimo risulta citato in una sentenza arbitrale del conte Mainardo di Gorizia l’8 giugno 1234 su questioni di confine e nel 1238 quale fiduciario del patriarca Bertoldo in una trattativa; in vari documenti, per lui e per i suoi discendenti, viene usato il suffisso “de Mimiliani”, a comprova del desiderio di questo ramo della famiglia di distinguersi e di emanciparsi da quello principale duinese. Dopo il 1249, compaiono nei documenti i figli di Vossalco, Conone (Cono) e Biachino (Biaquinus) che, pur mantenendo legami nell’area friulana e carsica, allargano la loro influenza soprattutto nell’Istria[2].
Ambizioni di potere, scorribande e saccheggi fecero esplodere in questo periodo violenze e vendette trasversali, al punto che i feudatari di Pietrapelosa nel 1274 attaccarono il castello di Momiano e si macchiarono di un turpe delitto, decisamente in contrasto con le usanze cavalleresche, assassinando in modo truce il conte Biachino nel suo letto.
L’onta non poteva non essere vendicata col sangue: il fratello Conone chiese l’appoggio del conte Alberto di Gorizia, che scese con le sue truppe e cinse d’assedio il castello di Pietrapelosa, lo assalì e lo conquistò. I signori del luogo, Carstermanno ed Enrico, furono decapitati nello spiazzo antistante al loro maniero.
La morte di Biachino sarà seguita poco dopo da quella del fratello Conone. Sotto la loro giurisdizione, la signoria di Momiano raggiunse la sua massima estensione, sino ad abbracciare ben 48 località fra l’Istria, il Carso e il Friuli[3]. I loro figli e successori non riuscirono però a mantenere i privilegi acquisiti; il feudo di Momiano tornò nella disponibilità dei patriarchi che, dopo un periodo di affidamento ai conti di Prampero[4], lo investirono a favore dei baroni Raunicher.
Raunicher, il secondo Casato di Momiano (1338 – 1508; 1535 – 1548)
La data d’insediamento dei Raunicher nel castello non è del tutto certa. Lo storico De Franceschi evidenzia che l’ultimo Duinate stipendiò un certo notaio Pietro fino al 1337; questo consente di ipotizzare l’arrivo dei Raunicher intorno al 1338[5]. I baroni Raunicher (o Raunach) provenivano dall’Italia centrale, esattamente dall’Emilia Romagna. Pare che in origine si chiamassero Ravignani e che fossero fuggiti da Firenze a seguito degli scontri tra Guelfi e Ghibellini.
Si distinsero per il loro spirito cavalleresco. Il ‘300 ed il ‘400 furono secoli funestati da continue guerre, prima tra Venezia e il patriarcato, poi tra Venezia e la contea di Gorizia[6]. Alle battaglie seguivano trattati di pace, che venivano infranti dopo breve tempo.
Nel 1344 la Serenissima, sulla base di uno di questi trattati con la contea di Gorizia, impose la demolizione dei castelli dei nobili ad essa ostili. Anche i Raunicher, da poco insediati a Momiano, avrebbero dovuto sottostare all’imposizione ma, a quanto consta, ciò non avvenne. Due documenti di mezzo secolo posteriori[7], oltre a studi archeologici più recenti, ci consentono di ritenere che quanto oggi rimane del Castello corrisponde in larga misura all’originario fortilizio.
In mancanza di documenti sui 150 anni successivi, arriviamo al 1500, quando l’ultimo conte di Gorizia Leonardo II muore lasciando la contea in eredità all’Imperatore Massimiliano I d’Austria. Da quel momento e fino all’epopea napoleonica l’impero Asburgico rappresenterà sempre una spina nel fianco per la repubblica Veneta.
Nei primi anni del ‘500 i Raunicher si impegnarono in altri combattimenti[8] e la loro assenza da Momiano consentì ai Piranesi, fedeli alla Serenissima, di approfittare nel 1508 del locale vuoto di potere, occupando pacificamente il Castello[9] col favore, va sottolineato, della popolazione. L’occupazione durò in tutto 27 anni e viene ricordata per l’emanazione, da parte del podestà di Pirano Lorenzo Pisani, del primo Statuto (1510) e in seguito, del “Capitolare” di Momiano (1521), con cui si definivano in modo particolareggiato i rapporti e gli obblighi dei sudditi verso i feudatari.
Il ritorno dei Raunicher, reso possibile nel 1535 dalla sentenza emessa in loro favore dalla Commissione arbitrale di Trento[10], fu accolto con scarso favore dagli abitanti, che anzi cercarono di ostacolare la normalizzazione[11]. Se a ciò si aggiungono il disfavore dei vicini piranesi e l’ostilità di Venezia, è facile intuire come i baroni Raunicher fossero ormai orientati a cercare di vendere il feudo. Tra l’altro, essi avevano ottenuto degli importanti incarichi presso la corte imperiale e ambivano stabilirsi in una sede per loro più comoda e accessibile.
L’occasione propizia si presentò 13 anni più tardi, con la proposta di acquisto del castello da parte dei nobili Rota di Bergamo.
Rota, il terzo e ultimo Casato di Momiano (1548 – 1835)
Secondo gli storici milanesi[12], l’origine del cognome Rota è molto antica. Diffuso in Lombardia, specie nel bergamasco, sembra avere connessioni con l’espressione longobarda Rot Har (rosso di capigliatura), che si rinviene ad esempio in apertura di un editto (anno 643) del re longobardo Rotari, duca di Brescia, di Bergamo e della Corte Regia di Almenno.
La prima memoria della famiglia risale ai tempi di S. Ambrogio[13]; Galvano Fiamma cita questa casata in Milano fin dall’anno 826 nominandola de genere Rhodensium. Arioaldo e suo figlio Alderico erano definiti nell’anno 1066 come uomini potenti[14].
Col trascorrere dei secoli il cognome si diffuse con diverse declinazioni: Rota, Rotta, Roth, Rot, Rotharius, Rotarium, specialmente nell’Italia settentrionale: a Milano, Bergamo, Brescia, Monferrato, Cremona, Venezia, nel Friuli, poi in Francia e a Napoli. Si misero in luce come giudici, soldati di valore, nobili, ecclesiastici.
Le famiglie adottavano simboli araldici che avessero un legame col loro cognome[15]. Nella chiesa parrocchiale di Pianca (frazione bergamasca vicina al castello di Tizzano, che fu la culla dei Rota), è tuttora visibile lo stemma gentilizio in marmo con una ruota a cinque raggi sovrapposta al mezzo busto di un moro e con una fascia legante sulla quale compare la scritta “PER BEN FAR”, esattamente corrispondente all’arma dei conti Rota di Momiano[16].
Grazie a documenti dell’Archivio di stato di Venezia, si è potuto appurare che Bartolomeo Rota era un personaggio di rilievo. Nel 1433 ottenne dalla Serenissima un feudo nobile e gentile e per i suoi meriti e tale privilegio venne esteso ai suoi eredi con investitura del 22 luglio 1483.
Suo figlio Orsino, sposato con Maria Morosini, si distinse a sua volta per doti di coraggio e fedeltà, ricevendo il titolo di Conte del Sacro Romano Impero da Federico III. Nella città di Bergamo era conosciuto soprattutto come uomo di legge[17].
Simone, figlio primogenito di Orsino e non meno intrepido, venne insignito Cavaliere di Francia dall’imperatore Francesco I, in seguito alla pace di Crespj. La nomina è testimoniata dall’investitura del 1538 redatta dal cardinale Lorraine de Rôchetel, conservata nell’archivio privato Gregoretti e della quale si riporta una traduzione cortesemente fornita:
“Francesco, Re di Francia, per grazia di Dio.
Facciamo sapere a tutta la gente di oggi e a quella futura come sia giusto che una persona onorata e piena di virtù sia elevata ad alto titolo e grado d’onore per dare coraggio e desiderio ad altri di accedere a tale dignità ed onore.
Abbiamo saputo dal nostro caro cugino il Duca Detric Cavaliere del nostro ordine le virtù e le virtuose opere della nostra Buon Anima Simon Rota bergamasco e per queste sue virtù desideriamo dare un titolo e un grado d’onore come sì merita.
Giacché è stato umilmente chiesto un titolo di cavaliere, ben volentieri gli sia accordato e dato da noi in presenza di molti principi e signori del nostro sangue.
Per nostra gioia egli può gioire ed usare d’ora innanzi di tutti i diritti di Cavaliere d’onore, dei privilegi e prerogative tanto in guerra quanto nella vita civile. Può portare le armi qui dipinte.
Ha inoltre diritto di usufruire dei privilegi concessi sia ai nostri più alti ufficiali in Guerra che ai nostri nobili vassalli, e che tutto questo venga concesso anche ai suoi discendenti.
Questo è un nostro piacere e che tutto ciò detto sopra venga mantenuto nel tempo.
Fatto a Fontainebleau nel mese di maggio nell’anno di grazia 1538 e durante il nostro 25mo di Regno”.
Il motivo che portò i Rota a migrare in Istria va ricercato nel desiderio di porsi sotto la protezione della Serenissima, perché l’appoggio da loro dato a Venezia durante il conflitto contro il Sacro Romano Impero li esponeva nel bergamasco all’ostilità del duca di Milano[18].
In un primo momento, nel 1540, Simone si stabilì a Pirano e qui probabilmente attese il momento propizio per consolidare la sua posizione. Era vedovo di una veneziana (figlia di Antonio della Mora) e portò con sé i due figli: Orazio (il primogenito, nato nel 1528) e Giovanni (o Zuanne, nato nel 1531). A Pirano sposò Adriana Veniera, nobile veneziana nativa di questa città, dalla quale ebbe altri due figli maschi, Girolamo e Valerio, che daranno origine ad altri rami dei nobili Rota.
Il contratto di acquiisto del castello di Momiano venne perfezionato il 25 gennaio 1548 al prezzo di 5.555 ducati d’oro, fra Simone Rota e i fratelli del defunto Bernardino Raunicher (Bartolomeo e Giacomo, cognati della baronessa Ingenua). Questi ultimi non si presentarono personalmente alla stipula, ma si fecero rappresentare dal loro procuratore Johannes Piberger (alias Hans Riettaner). L’atto fu scritto e confermato nella sala superiore del Castello.
Con l’acquisto del maniero e del feudo, Simone assunse il titolo di Simone I conte Rota di Momiano, rilevando dai Raunicher i poteri giurisdizionali – civile e penale – unitamente ai titoli nobiliari trasmessi dai predecessori:
- Anno 1275: atto di ricognizione della proprietà deI signore Conone, con il suo nipote signore Varisco, sul castello di Momiano, sulla villa sup. e inf., sui castelli di S. Pietro di Rizzo e Sorale.
- Anno 1312: investitura del Patriarca Ottobono in favore del conte di Gorizia per il castello di Momiano.
- Anno l514: atto del comune di Pirano del 1514 (sei anni dopo l’entrata dei piranesi a Momiano).
- Anno 1521: determinazione di Morosini del 5 agosto, durante l’occupazione dei piranesi.
- Anno 1535: sentenza arbitrale della commissione di Trento (17 giugno 1535), con la quale si reintegra il Raunicher nel possesso di Momiano dopo l’uscita dei piranesi.
- Anno 1547: ducale per il governo di Momiano, secondo le leggi venete sui feudi dell’Istria.
Al tempo dell’acquisto, il castello doveva avere un aspetto piuttosto austero e spartano, essendo costituito solo dalla torre e dagli ambienti annessi destinati al castellano e alla guarnigione. Simone fece costruire nella parte orientale un edificio a due piani in stile veneziano, dimora dei conti nei due secoli successivi. Fece consolidare le mura e riconsacrare la chiesetta di San Martino (su licenza del Vescovo Adriano Valentino); le spese furono sostenute in parte dal comune e in parte dal castellano.
Provvide inoltre ad abbellire la piccola chiesa dedicata a Santo Stefano, posta all’interno del castello, sede per i matrimoni e i battesimi della famiglia sino alla metà del ‘700.
I tempi delle grandi invasioni barbariche erano finiti da un pezzo, ma nel ‘500 erano ben presenti le minacce dei Turchi e in seguito degli Uscocchi. Per questo Simone, oltre a pensare alle comodità, si occupò di migliorare le difese del castello, facendo costruire di fronte alla torre principale un torrione prospiciente la valle Dragogna.
Nel 1552, egli acquistò anche il castello di Sipar, col relativo feudo (antico dominio dei vescovi di Trieste, tra Umago e Salvore) dai conti Bratti, che avrebbero creato seri problemi ai suoi discendenti con un’ultrasecolare vertenza.
Simone I morì nel 1570, lasciando il feudo ai figli Orazio e Zuanne, prevedendo nel testamento che “se a questi mancherà discendenza legittima mascolina, l’eredità passi alle donne e mancando di questa esse pure, la giurisdizione di Momiano passi ai Conti Rota di Bergamo”. Se ne deduce che la giurisdizione maschile, in determinate situazioni, avrebbe potuto ammettere delle eccezioni.
Scorrendo la dinastia si rileva che, al tempo di Simone II, ebbero luogo tre fatti di rilievo: l’inizio della contesa giudiziaria con i Bratti (1598), l’invasione degli Uscocchi[19] e l’origine della linea dei conti Rota di Pirano. Infatti Simone II[20], morendo nel 1632, lasciò tre figli maschi: Orazio III (1595-1688) che proseguirà la linea di Momiano, Rodomonte (nato nel 1614, che muore piuttosto giovane nel 1641) e Giovanni Paolo (1601-1658), che sposerà Francesca Furegoni dando vita come accennato al ramo piranese del Casato.
Il secolo successivo fu caratterizzato da una sostanziale stabilità. Le popolazioni avvertivano il bisogno di protezione; gli abitanti preferivano quindi vivere nei pressi dei castelli per sentirsi tutelati, partecipavano alla relativa manutenzione ordinaria e alla difesa pagando le decime, contribuendo con una parte dei loro prodotti e prestando un certo numero di ore di lavoro gratuite[21].
Nella seconda metà del XVIII secolo, sotto la giurisdizione di Orazio IV, il castello di Momiano verrà gradualmente abbandonato, essendo venute meno le motivazioni militari-strategiche e prevalendo ormai le ragioni economiche. Intorno al 1750 era stata costruita l’elegante casa dominicale in Villa di Sotto, che sarà la dimora dei conti nei due secoli successivi[22].
Lo stemma dei Rota, col motto “PER BEN FAR”, venne spostato dal castello alla facciata di tale casa, sopra al ballatoio. Nella notte del 31 dicembre 1951 un incendio distrusse parte dell’edificio, che venti anni dopo fu abbattuto del tutto: allora l’arma venne nuovamente rimossa e collocata all’esterno della “Casa della cultura” di Momiano, dove si trova tuttora.
Le ricerche d’archivio hanno portato alla luce ripetuti inviti, diffide e resoconti di sopralluoghi eseguiti dal governo veneto per indurre i conti Rota a una decorosa manutenzione del castello, nel rispetto delle clausole fissate con l’investitura di Simone I.
Perciò si ipotizza che la pregevole policromia conservata nella biblioteca marciana a Venezia, unica rappresentazione dettagliata dell’antico castello e restaurata nel 2005 con il contributo della Regione del Veneto, sia stata eseguita nel corso di uno di uno di tali sopralluoghi per testimoniare lo stato del maniero e per imporre opere di ripristino [23].
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Tra i discendenti del ramo nobile trasferitisi a Trieste nell’800 va ricordato l’insigne musicista e compositore Giuseppe Rota (1833-1911)[24] cui è intitolata una strada che porta sul colle di San Giusto. La casa ove egli abitò ospita tuttora il grande dipinto realizzato nel 1876 da suo fratello Giovanni (pittore, 1832-1900) che ritrae il loro terzo fratello, Giacomo Rota (baritono, 1835-1898) nelle vesti di scena del personaggio dell’opera “Ginevra di Svezia”, scritta da Giuseppe nel 1861 e rappresentata con successo a Trieste, Parma e Milano.
Nella stessa casa visse il conte Nicolò (1890-1964), Ispettore alle Belle Arti e Antichità di Trieste, che nel 1945 assieme al sindaco e al Vescovo Antonio Santin partecipò alle drammatiche fasi conclusive della seconda guerra mondiale[25].
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La contessa Mercede (1874-1970), figlia di Adriano Rota (1824-1911) sposò Tobia Gregoretti, commerciante in legnami a Trieste. Il loro figlio ing. Adriano alternò la sua vita fra Momiano e Monfalcone ove era occupato nei cantieri navali e dove la sua famiglia prosegue con i figli Pietro, Antonio e col nipote Nicola, attento custode di un importante archivio.
I fondi privati degli ultimi discendenti dei conti di Momiano, assieme ai reperti già catalogati e custoditi negli archivi pubblici di Trieste, di Venezia, di Pirano, costituiscono una miniera preziosa di testimonianze su fatti e consuetudini di un millennio di storia – istriana e non solo – che speriamo possano trovare valorizzazione offrendo ancora utilissimi spunti e testimonianze inedite.
Vorrei concludere questo breve intervento riportando la frase, decisamente poetica, che Stefano Rota pose in chiusura delle sue “Notizie sui tre Casati di Momiano”, con l’auspicio che le sue parole siano di stimolo agli auspicati interventi di consolidamento, di ricostruzione e valorizzazione dello storico Castello:
Guardiano solitario del castello desolato oggi sta l’avoltojo, intento ad atterrire gli augelli che a primavera vorrebbero ricoverare i nidi. L’antico fondatore si rinchiudeva per offendere quand’era forte; per difendersi, se abbisognava; assieme per avvalorare coi fatti le proprie passioni, sdegnoso di avvalorarle colla imperturbabilità, più tardi tanto accreditata. Dove Conone e Biaquino fremevano, oggi ulula il gufo, si contorce il serpente, e l’ortica sibila ai venti.
Bibliografia:
Stefano Rota “Notizie sui tre Casati di Momiano” [26] – (Inizi del ‘900, archivio privato Benedetti)
Elvino Zinato “Momiano e il suo Castello” [27]
Halbert’s Family Heritage “Il libro internazionale delle famiglie Rota” – 1996
Unione degli Istriani – Periodico, marzo-aprile 1995 “Antichi cognomi istriani: Rota e Rotta”
Centro Ricerche Storiche di Rovigno – Atti, Vol. XX (1989-90) “L’Archivio Benedetti”
La Voce del Popolo – EDIT, 2011 – Intervista di Franco Sodomaco a Marianna Jelicich Buić
Gualtiero de Rota ‘Momiano, il suo Castello e l’avvento dei conti Rota’ http://www.latanadierode41.com
Associazione Culturale Ermes Grion- Monfalcone ‘Gita a Momiano” (redazionale, 24.5.2011)
Circolo-Famiglia Momianese ‘Per ben far‘ (aderente all’Unione degli Istriani di Trieste) – “Momiano in cartolina”, volume a cura da Enrico Neami, collaborazione di Nicola Gregoretti.
Marino Bonifacio “Cognomi del comune di Pirano e dell’Istria” – Vol. III (2000) – Comunità degli Italiani di Pirano.
Rosanna Busolini Panizzoli “Emilio Busolini” – Archivio della Cappella Civica di Trieste, Quaderno XXV (2010).
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[1] Costruita a picco sul mare; sarà abbandonata nel 1478 dopo le distruzioni subite a seguito di una scorreria dei turchi.
[2] Riuscirono a far valere la loro influenza nei comuni confinanti col territorio momianese occupando anche cariche pubbliche, malgrado i rapporti difficili per i conflitti d’interesse che esistevano fra le località vicine: Biachino fu eletto podestà a Pirano nel 1258, a Cittanova nel 1259, a Parenzo nel 1261, a Montona nel 1263; suo fratello Conone fu podestà di Pirano nel 1259 e nel 1272 anche di Buie.
[3] Mimilianum (Villa superiore e Villa inferiore), Castrum, S. Petri, Zuchules, Sezolis, Ortenegla, Oscurus, Topolo, Stanislaci, Sorbaria, Cuberton, Sterna, Gradina, Trebesat, Figarola, Senosechia, Dobroizza, Caporiaz, Salat, Palizat, Clente, Semel, Cogam, Fanielas, Gorizat, Rasa, Patloc, Los, Nosper, S. Margarethen ad Isontium, Ruda, Panzanum, Bistria, Otucasela, As in Foro-julio, Advocatia Detanes, Advocatia Lastare, Anuzis, Acanpu, Advocatia de Sesan, Advocatia de Uttoglaz, Minchat S. Giorgio in Laimis (ossia Villanova al Quieto).
[4] Nicolò Prampero acquistò il castello dal proprio suocero, conte Enrico II, il 21 dicembre 1311; il patriarca Ottobono si oppose; Prampero dichiarò di rinunciare a condizione che gli fosse restituito il prezzo pagato, ma ciò non avvenne. Il patriarca alla fine formalizzò l’investitura il 6 ottobre 1312 quale feudo d’abitazione.
[5] Nelle “Note sui tre Casati di Momiano”, Stefano Rota afferma che non fu mai possibile visionare il documento attestante la cessione del castello da parte del patriarca Ottobono al conte di Gorizia, che poi lo assegnò ai Raunicher.
[6] Agli inizi del 1300, i feudatari istriani preferivano sottomettersi all’autorità del patriarca piuttosto che alla Serenissima.
[7] Atto di Antonio Venier e di un certo Capodilista, preposti in Istria per conto della Serenissima. È verosimile che l’ordine di demolizione sia astato ottemperato parzialmente, con l’apertura di qualche breccia nelle mura.
[8] In particolare nella difesa del castello di Moccò.
[9] Non si trattò certo di assedio, ma più piuttosto di una farsa. Momiano, come si può vedere ancor oggi, era in una posizione inespugnabile e per avere ragione della natura del luogo e delle sue difese i Piranesi avrebbero dovuto disporre di armi e di forze adeguate, che non possedevano. Ecco allora la soluzione più economica e pratica: fare in modo che il podestà di Pirano si accordasse col gastaldo del castello (incaricato dai Raunicher a guardia dello stesso) e far diventare l’espugnazione una semplice simulazione.
[10] Competente per dirimere le questioni territoriali e di confine tra l’impero Asburgico e la repubblica di Venezia.
[11] Lo si evince, ad esempio, dalla nota lettera con la quale il 14 settembre 1541 la baronessa Ingenua de Raunicher (vedova del fu Bernardino) si rivolgeva al capitano veneziano Antonio Sereni (allora residente a Piemonte d’Istria) per protestare sul mancato pagamento delle decime da parte degli abitanti di Bercenagla e per l’atteggiamento ostruzionistico del castellano:
“Amico carissimo!
Domenega passada, havendo io mandato a tior le Decime a me spettanti nella villa di Bercenagla, li somari sono ritornati vuoti, e detto alli huomini messi da me, essere state sequestrate le mie decime. Il che mi è parso nuovo. Tutta via per non correre a furia, ho voluto prima farvi la presente per intendere la causa; et così vi prego, siate contento avvisarmi per il presente lator, a ciò sappia governarmi, si come mi confido nella prudenza vostra alla quale m’offro, ad longe majora.
14 settembre 1541 Ingenua Raunicher Momiani Domina ”
[12] In particolare il Bombelli in Familiae Rhaudenses; cfr, inoltre l’Archivio araldico di Antonio Vallaudi, Milano.
[13] quando “un cavaliere longobardo disceso in Italia combatteva con il Patriarca di Pietrasanta contro gli ariani”.
[14] Scrive il Fiamma: “Arioaldus de Rhauda caput nobilium interfecit Hernobaldum. Cottam dominum civitatis”. Il Bugali nomina i Rota di Milano “tra i più illustri casati fin dal 1076”.
[15] ad esempio i Torriani avevano come simbolo una torre, gli Orsini un orso e i Rota, appunto, una ruota. I colori erano diversi a seconda delle storie dei singoli personaggi e della loro posizione politica. Nel caso delle principali famiglie Rota gli emblemi furono i seguenti:
- ruota d'argento in campo rosso, l’antico stemma della prima famiglia;
- ruota d'oro in campo azzurro, l’emblema dei Rota di Napoli;
- ruota rossa in campo d'argento, l’insegna dei Rota ghibellini;
- ruota d'argento in campo rosso, lo stemma dei Rota di Lombardia;
- ruota sovrapposta a tre monti verdi in campo d'argento, i Rota di Bergamo di fede guelfa;
- ruota in campo d'argento e monti in campo rosso, i Rota di Bergamo di parte ghibellina.
[16] Vi si trovano inoltre due busti in marmo, di un Giovanni Rota ed un Cristoforo Rota, vissuti nel medesimo villaggio in una bella dimora ancor oggi esistente e conosciuta come casa Rota. La famiglia di cui faceva parte Orsino era detta dei "negroni" (forse per la presenza nell'arma gentilizia della testa di un moro) e si distingueva dalle altre famiglie col soprannome di Bartola, abbreviazione di Bartolomeo.
[17] Viene così citato in un documento dell'epoca: ..."Lo spettabile e famoso dottore della legge e giudice del Collegio dei Signori della cittadinanza di Bergamo, Conte Orsino della spettabile Casata del Conte Bartolomeo della Pianta dei Rota, cittadino e abitante di Bergamo, ebbe legittimamente la sua casa dalla magnifica Signora Maria figlia del nostro Signore Agostino Mauriceni, patrizio Veneto …”
[18] Su iniziativa della Pro Loco di Rota d’Imagna (comune collinare in provincia di Bergamo) si è costituita il 16 giugno 1991 l’Associazione Gens Rota. Presieduta da Aquilino Rota, storico appassionato, essa ha organizzato nella stessa località tre convegni annuali delle famiglie Rota, convocandole da varie regioni italiane e dall’estero. Un quarto ed ultimo convegno si è tenuto a Bergamo il 13 ottobre 1996 e nell’occasione è stato presentato “Il libro internazionale delle famiglie Rota” edito dalla Halbert’s Family Heritage (USA). L’Associazione è attualmente impegnata ad approfondire i contatti ed estendere i programmi. È ipotizzata l’organizzazione di un viaggio di studio lungo il percorso delle origini millenarie del ceppo, a partire dal sud della Svezia (Scania) per scendere attraverso Germania, Moravia e Austria sino alle città italiane di tradizione longobarda come Pavia, Bergamo, Brescia, Verona, Trento, Cividale.
[19] che non attaccarono il castello di Momiano perché era ben difeso, ma che assaltarono e distrussero quello di Merischie. Gli Uscocchi erano profughi della Bosnia Erzegovina e dell'Ungheria che, sotto la spinta espansionistica dei turchi, si erano rifugiati sulla costa dalmata (presso Clissa) e con il benestare dell'Austria attaccavano i convogli della Serenissima mettendo a repentaglio i rifornimenti di materie prime via mare. Nella notte del 19 gennaio 1599, attaccarono la città di Albona e saccheggiarono successivamente Fianona, Pinguente, Ossero, devastando la campagna circostante e arrivando fino alla rocca di Monfalcone.
[20] nel 1591 aveva sposato la veneziana Ermanzia Zane.
[21] Il vescovo di Cittanova Giacomo Filippo Tommasini (1595-1655), nei suoi "Commentari storico geografici della provincia dell'Istria", traccia un quadro molto limpido del castello e degli obblighi dei momianesi che regolavano la vita del feudo.
[22] A breve distanza dalla casa fu allestito dalla famiglia anche un orto-giardino con alberi da frutto; l’architrave in pietra dell’ingresso reca l’iscrizione: “L.D.S. 1762 P.C.R. F.F.” ovvero “L’anno del Signore 1762 Pietro conte Rota fece fare”.
[23] La millenaria Repubblica Serenissima cessa di esistere con il trattato di Campoformido del 1797 e il suo territorio verrà diviso tra Regno d’Italia e Impero Asburgico. Con la seconda campagna d’Italia di Napoleone, anche l’Istria verrà inglobata nell’impero napoleonico sotto il nome di Province Illiriche, che dureranno fino al 1815 con la sconfitta di Napoleone prima a Waterloo e poi a Lipsia, dopo di che (con il trattato di Vienna) il tutto passerà alla corona asburgica che deterrà il controllo fino alla fine della prima guerra mondiale.
[24] Maestro di cappella nella Cattedrale di San Giusto dal 1890 al 1905 e maestro concertatore al Teatro Comunale di Trieste diventato, dal 1901, Teatro Verdi.
[25] Salirono il colle di San Giusto portando una bandiera bianca per incontrare e poter condurre una difficile trattativa con i tedeschi che si erano asserragliati nel castello e che minacciavano di far saltare la città, minata in più punti, evitando così una strage.
[26] L’Autore a sua volta richiama scritti del Nicoletti, del Buttazzoni, le Note Storiche del De Fraceschi, la Monografia di Pirano del Morteani, il Codice Diplomatico Istriano, la Corografia d’Italia del Luciani e lavori di Pietro Kandler
[27] Testo che a sua volta richiama scritti di Camillo de’ Franceschi, Stefano Rota, Francesco Tommasini e Marco Tamaro depositati alla Biblioteca Civica di Trieste; opere di Kandler, Capellari, Nicoletti, Pichler, Luciani, Morteani, Bombelli, Fiamma, Campanile; Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria; codici Bonacina conservati nell’Archivio araldico di Antonio Vallaudi in Milano; codici araldici all’epoca reperibili nella Biblioteca di Sua Maestà il Re d’Italia; Registro del Campidoglio Veneto.